( Da Mondoperaio 14/02/2011)
Quando si celebrò il Centenario ero al liceo, e non era festa. Il preside organizzò una lezione in aula magna. Era il padre di un caduto repubblichino, ma sulla facciata della scuola campeggiava la lapide commemorativa del figlio del custode, che invece era morto fra i partigiani. Già l’anno prima il preside aveva avuto la sua gatta da pelare, quando, col governo Tambroni in carica, si celebrava il quindicesimo anniversario della Liberazione. Ma il 25 aprile era festa, e lui se la cavò mandando alla manifestazione indetta dal Comune la bandiera della scuola, scortata dal direttivo dell’associazione studentesca e dall’insegnante di ginnastica, che era missino. Per il Centenario era più complicato, perché doveva scegliere l’oratore fra i quattro docenti di storia, uno dei quali era stato l’estensore del Manifesto della razza, mentre un’altra era la vedova di un giellista morto suicida in carcere. Degli altri due uno era saragattiano, l’altro liberale. Optò per quest’ultimo, che ci inflisse un’ora di lezione sui meriti di Cavour. Alla fine, più per spirito di contraddizione che per altro, ebbi l’impulso di fare “qualcosa di sinistra”, ed intonai l’inno di Garibaldi.
Il modesto episodio autobiografico mi è venuto in mente assistendo all’incredibile dibattito sulla festa del 17 marzo, e soprattutto ascoltando le chiacchiere sulla “memoria condivisa”. Nel 1961 le memorie di repubblichini e partigiani, razzisti e giellisti, fascisti e antifascisti, perfino “cavourriani” e “garibaldini”, erano ben vive e ben separate. Ma era condivisa la prospettiva della ricostruzione, del riscatto nazionale, della pace da conservare e del benessere da conquistare. Era condivisa, soprattutto, la Repubblica da poco edificata; e c’era la politica, che nonostante divergenze ideologiche epocali univa più che dividere. Adesso ci sarà pure la “memoria condivisa”, ma c’è un governo che prima istituisce la festa e poi si divide sulle forme della sua celebrazione. Adesso, insomma, il problema non sono le folcloristiche memorie separate di neoborbonici e leghisti, ma l’assenza di una prospettiva politica. Il governo resta in carica finchè uno dei suoi componenti non avrà “portato a casa” una riforma dello Stato intesa come trofeo di guerra. E l’opposizione tratta questa riforma come merce di scambio per avere un governo diverso.
La politica ha ceduto il passo alla propaganda. Viene in mente quello che diceva Sklovskji quando contestava a Stalin di volere “battere i chiodi con il samovar” ed usare l’arte per la propaganda: un errore non in nome “dell’arte per l’arte”, ma “della propaganda per la propaganda”. Anche ora, pare, c’è da difendere almeno l’autonomia della propaganda, se non quella della politica.
LUIGI COVATTA
Nessun commento:
Posta un commento