giovedì 31 marzo 2011

Grazie a Lei conobbi il figlio di Matteotti



Quando incominciò a circolare per Santarcangelo quel giornaletto irriverente a partire dal  nome “ Pagine Contro” eravamo intorno alla metà degli anni 90’.  Destò  subito la mia curiosità che si tramutò ben presto in interesse quando vidi che ad animarlo e a stamparlo direttamente in casa era Mirella Venturini  personaggio molto noto   della politica riminese e non solo, con un passato nelle file della sinistra socialista che aveva troncato di netto fin dal 1981 con l’avvento del craxismo che considerava la sua bestia nera, salvo poi riabilitare la figura politica di Bettino nel periodo della caccia alle streghe che metteva in luce il suo spirito profondamente cristiano, di essere  sempre e comunque dalla parte di chi si trova in difficoltà anche se un tempo è stato un potente.
Mirella irruppe nella pigra vita politica santarcangiolese come un ciclone scuotendola  dalle radici e per  circa un decennio  portò una ventata di aria fresca, anticonformista e ribelle a tutte  logiche del potere locale, rappresentando per chiunque, a partire dai colleghi consiglieri  di ogni  schieramento – entrò in consiglio nelle comunali del  1999 - un esempio  ineguagliato di studio , serietà e vigore intellettuale al servizio della collettività santarcangiolese e in particolare, cosa che le riusciva molto bene, al controllo degli apparati di potere.
A me, che iniziai a frequentarla  strada facendo, restituì quella fiducia nella politica vera che si era andata perdendosi  negli anni bui del socialismo italiano e per questo le devo molto, oltre che ricordare un aspetto  fin qui tralasciato della sua vita.
La sua porta era aperta a chiunque, a partire dai più bisognosi  ed umili con una sensibilità particolare ai problemi dei carcerati e dei tossicodipendenti , oltre che di tutte le minoranze offese ed emarginate comprese quelle  politiche.
Fu proprio in uno di questi incontri in preparazione di un importante convegno sui problemi della giustizia che volle fare  a Santarcangelo alla fine degli anni 90’, che ebbi l’onore di conoscere l’on. Giancarlo Matteotti  figlio del martire socialista dell’antifascismo Giacomo Matteotti che ricordo con grande emozione e affetto, al quale donai una copia della storia di Santarcangelo .
Queste parole , oltre che essere un ricordo personale  le esprimo  anche a nome di tutti i socialisti  Santarcangiolesi  che l’ebbero sempre amica.

Fiorenzo Faini                                                                            
Seg. PSI  Santarcangelo di Romagna



lunedì 21 marzo 2011

Il Garibaldi “socialista” (nel 150° dei Mille)

Scritto da Avanti!


La storiografia risorgimentale ha prestato scarsa attenzione al socialismo di Giuseppe Garibaldi. La sua azione politica, pervasa da sincera umanità, s’inserisce invece in quelle tendenze ideali che hanno caratterizzato il socialismo nel suo sviluppo originario. Come egli stesso ricordò più volte, fu nel 1833, durante un viaggio per l’Oriente, che conobbe le idee umanitarie e sociali di Saint-Simon. Il contatto con un gruppo di sansimoniani, guidati da Emile Barrault, e l’influenza di Saint-Simon lasciarono nel giovane Garibaldi (allora venticinquenne) un’impronta indelebile. Quel socialista francese, che predicava il libero sviluppo delle facoltà umane attraverso il ritorno all’interezza armonica della natura, orientò Garibaldi nella sua successiva evoluzione politica. I primi passi di Garibaldi risalivano agli anni Trenta del secolo XIX. Dall’adesione alla Giovane Italia - la cui affiliazione avvenne senza bruschi passaggi per l’influenza che Saint-Simon esercitò su Mazzini - e poi alla Massoneria (1844), Garibaldi corroborò gli influssi socialisti provenienti dalla Francia. L’assidua frequenza delle logge Asile de la Veru e Amis de la patrie gli permise a Montevideo di partecipare al dibattito, che si sviluppò con la pubblicazione nel 1839 de L’organisation du travail di Louis Blanc e de De lesclavage moderne di Félicité R. de Lamennais; o due anni dopo con quella di Voyage en Icarie di Etienne Cabet. Attraverso la conoscenza di queste opere, l’anticlericalismo di Garibaldi, influenzato dalle idee di Proudhon e dalle battaglie anticuriali di Lamennais, si accentuò e la sua religione naturale assomigliò sempre di più al mondo ideale dei socialisti francesi.

Dal suo ritorno in Italia nel 1848 fino agli anni 1860-61, Garibaldi fu impegnato nelle sue gesta di condottiero militare e il suo rapporto col socialismo sembrò dileguarsi o quasi. Fino al compimento dell’Unità dItalia, i rapporti di Garibaldi con il movimento socialista divennero sempre più scarsi. La recente storiografia suole infatti farli decorrere dal IX congresso delle società operaie (Firenze, settembre 1861), che lo scelse come presidente e lo elesse membro della commissione permanente. Da quell’anno non ci fu congresso che non invocò l’adesione di Garibaldi e non lo invitò a partecipare; al decimo congresso delle società operaie (Parma, ottobre 1863) apparve addirittura come un nume tutelare. Solo con la nascita dell’Associazione Internazionale dei lavoratori (settembre 1864), Garibaldi divenne un personaggio di primo piano nell’ambito di quella democrazia europea, che si richiamava agli ideali della Rivoluzione francese. Il suo strenuo appoggio all’indipendenza della Polonia e della Romania accentuò la fama di Garibaldi, che in breve tempo diventò l’incarnazione delle aspirazioni al riscatto dei popoli oppressi. Nell’aprile 1864 la visita di Garibaldi a Londra ricevette la calorosa accoglienza delle società operaie inglesi, che gli tributarono numerose manifestazioni di simpatia. Ma esse non riuscirono a coinvolgere anche Karl Marx, affinché sottoscrivesse un messaggio di saluto all’eroe della democrazia italiana. Nonostante gli insulti a Garibaldi da parte di Marx, che conservò sempre un atteggiamento critico nei suoi confronti, questo viaggio fu seguito con vivo interesse dalla stampa progressista europea. Dagli esuli tedeschi Garibaldi ricevette un Indirizzo, in cui fu salutato come il propugnatore della libertà, l’uomo che ha combattuto su due emisferi per il progresso, i diritti umani e lo stato libero.

Nel settembre 1867, quando a Ginevra fu costituita la Lega per la pace e la libertà sotto gli auspici di Victor Hugo, di John Stuart Mill e dello stesso Garibaldi, questi professò un forte pacifismo. Contro la guerra sostenne l’opportunità di un arbitrato internazionale, diretto ad eliminare i contrasti fra le nazioni su un piano di civile democrazia. L’atteggiamento incerto della Lega di fronte alla Comune di Parigi, assunto al congresso di Losanna (1871), non gli impedì di prenderne le difese, pur ritenendola una sventura per gli eccidi della guerra civile. Quello della Comune, per Garibaldi, restò però uno straordinario avvenimento, una nuova e sfortunata tappa di quel lungo processo di emancipazione economica e morale della classe lavoratrice, che prese avvio dalla Rivoluzione francese dell’89.

Con la difesa appassionata della Comune di Parigi, che pur accentuò i contrasti nelle prime organizzazioni operaie e socialiste, Garibaldi divenne in breve tempo il principale veicolo del passaggio di ampi strati del democraticismo risorgimentale verso il socialismo. Nelle posizioni garibaldine, infatti, si riconobbero i gruppi riuniti attorno a La Plebe di Enrico Bignami, il giornale operaista destinato a svolgere un ruolo di primaria importanza nel periodo della prima Internazionale. Provenienti dalle file garibaldine, quasi tutti i collaboratori (Achille Bizzoni, Angelo Umiltà, Luigi Perla, Ferrero-Gola) accolsero la visione eroica del loro maestro, ma anche l’umanitarismo democratico e internazionalista, il laicismo anticlericale e la fede nel riscatto dei più deboli. Alla sua nascita (4 luglio 1867), La Plebe non esitò a pubblicare una lettera di approvazione e di incoraggiamento da parte di Garibaldi. E alcuni anni dopo, il 9 novembre 1871, il periodico pubblicò altresì una polemica lettera di Garibaldi a Giuseppe Petroni, direttore della mazziniana Roma del popolo, per confutare alcune affermazioni riguardanti l’Internazionale e la Comune. Larghi entusiasmi - oltre al gruppo de La Plebe - riscosse Garibaldi a Firenze, dove la sezione dell’Internazionale contava nel giugno del 1871 circa 300 soci, tra i quali numerosi erano i garibaldini, che avevano combattuto con l’Eroe a Mentana o nell’armata dei Vosgi.

A Torino, quando nell’ottobre 1871 si costituì la sezione dell’Internazionale, l’assemblea inviò al generale un telegramma. Ma a fare del garibaldinismo un elemento fondamentale delle origini del socialismo italiano contribuirono i socialisti romagnoli (Erminio Pescatori, Celso Ceretti e Lodovico Nabruzzi): nel dicembre 1871 il Fascio operaio di Bologna inviò a Garibaldi il programma e lo statuto, quasi ad attestare la fedeltà alle sue idee. In una lettera del 13 marzo 1872 Garibaldi accolse lo statuto della nuova associazione e inviò la sua quota mensile di socio; come pure ammise di condividere il tentativo dei socialisti romagnoli di unificare le varie organizzazioni democratiche esistenti in Italia in organismi disposti a superare le divergenze ideologiche e a lottare per un programma concreto di emancipazione sociale. Tuttavia Garibaldi non fu molto entusiasta quando i socialisti romagnoli imboccarono una via di conciliazione tra garibaldinismo e bakuninismo, auspicando un programma comune basato sull’emancipazione del proletariato mediante la lotta contro i privilegi, l’autogoverno dei liberi comuni e la loro federazione universale. Così Garibaldi non mancò di manifestare diffidenza personale per Bakunin e sfiducia nelle sue idee utopiche e irrealizzabili. Durante la conferenza di Rimini (4-6 agosto 1872), egli avversò l’indirizzo dei delegati romagnoli, che accolsero il programma bakuniniano, pur respingendo le tesi fatte votare da Marx alla conferenza londinese del 1871, perché intrise di comunismo autoritario. Vicecersa Bakunin criticò Garibaldi, perché questi - proprio quando si dichiarava socialista o internazionalista -metteva in guardia dalle esagerazioni anarchiche, dagli eccessi dei dottrinari, intenti solo a inventare paradossi con lo scopo ben preciso di “spaventare il mondo”. La guerra al capitale, la collettivizzazione della terra, l’abolizione dello Stato furono considerati paradossi che ritardavano l’eliminazione delle sperequazioni sociali.

Questo atteggiamento rese Garibaldi inviso agli anarchici, i quali più volte lo definirono un confusionario per il suo militarismo rivoluzionario e per la sua idea di una dittatura elettiva. In realtà, l’avversione di Garibaldi all’istituto parlamentare fu dettata dall’assenza di una struttura politica unitaria, che garantisse piena autonomia ai corpi intermedi (comuni e regioni) e ricorresse all’arbitrato internazionale riguardo alla futura organizzazione politica europea. Al IV congresso della Lega (Lugano, 23-27 settembre 1872), egli - pur non partecipandovi personalmente - sostenne la subordinazione della politica alla morale, la Federazione repubblicana europea e la sostituzione delle milizie nazionali agli eserciti permanenti. Nell’ultimo decennio della sua vita, Garibaldi ripose piena fiducia in un progetto di vaste e profonde riforme istituzionali e legislative, desideroso di battere nuove vie per realizzare il sogno sansimoniano di una società diversa, da lui stesso presentato nel capitolo conclusivo de I Mille. Ma il suo contributo più importante fu diretto soprattutto a scongiurare il pericolo di nuove guerre per un’unione completa delle nazioni libere e per il conseguimento della pace universale. Così continuò negli anni successivi fino alla morte (1882) ad inviare messaggi augurali ai giornali e ai congressi socialisti, testimoniando anche a favore degli internazionalisti del Garibaldi non fu molto entusiasta quando i socialisti romagnoli imboccarono una via di conciliazione tra garibaldinismo e bakuninismo, auspicando un programma comune basato sull’emancipazione del proletariato mediante la lotta contro i privilegi, l’autogoverno dei liberi comuni e la loro federazione universale. Così Garibaldi non mancò di manifestare diffidenza personale per Bakunin e sfiducia nelle sue idee utopiche e irrealizzabili. Durante la conferenza di Rimini (4-6 agosto 1872), egli avversò l’indirizzo dei delegati romagnoli, che accolsero il programma bakuniniano, pur respingendo le tesi fatte votare da Marx alla conferenza londinese del 1871, perché intrise di comunismo autoritario. Vicecersa Bakunin criticò Garibaldi, perché questi - proprio quando si dichiarava socialista o internazionalista -metteva in guardia dalle esagerazioni anarchiche, dagli eccessi dei dottrinari, intenti solo a inventare paradossi con lo scopo ben preciso di “spaventare il mondo”. La guerra al capitale, la collettivizzazione della terra, l’abolizione dello Stato furono considerati paradossi che ritardavano l’eliminazione delle sperequazioni sociali.

Questo atteggiamento rese Garibaldi inviso agli anarchici, i quali più volte lo definirono un confusionario per il suo militarismo rivoluzionario e per la sua idea di una dittatura elettiva. In realtà, l’avversione di Garibaldi all’istituto parlamentare fu dettata dall’assenza di una struttura politica unitaria, che garantisse piena autonomia ai corpi intermedi (comuni e regioni) e ricorresse all’arbitrato internazionale riguardo alla futura organizzazione politica europea. Al IV congresso della Lega (Lugano, 23-27 settembre 1872), egli - pur non partecipandovi personalmente - sostenne la subordinazione della politica alla morale, la Federazione repubblicana europea e la sostituzione delle milizie nazionali agli eserciti permanenti. Nell’ultimo decennio della sua vita, Garibaldi ripose piena fiducia in un progetto di vaste e profonde riforme istituzionali e legislative, desideroso di battere nuove vie per realizzare il sogno sansimoniano di una società diversa, da lui stesso presentato nel capitolo conclusivo de I Mille. Ma il suo contributo più importante fu diretto soprattutto a scongiurare il pericolo di nuove guerre per un’unione completa delle nazioni libere e per il conseguimento della pace universale. Così continuò negli anni successivi fino alla morte (1882) ad inviare messaggi augurali ai giornali e ai congressi socialisti, testimoniando anche a favore degli internazionalisti del 1875.

domenica 20 marzo 2011

Essere socialisti oggi

Ho appena finito di seguire l'intervento di Giuliano Amato a "Che tempo che fa" di Fazio e devo dire che la sua presenza ha prodotto in me diversi pensieri.

1. Si è definito di origini socialiste ed ha parlato di idee socialiste e di sinistra: non sentivo più pronunciare queste parole in televisione da troppo tempo.

2. "Una volta per un avviso di garanzia cadevano i Governi, ora non più. E' cambiato il sentire delle persone o è cambiato il modo di governare?" (questa la domanda di Fazio). Risponde Amato "E' cambiato il modo di sentire delle persone che stanno al Governo".

3. "Da cosa dovrebbe partire un programma riformista del centro sinistra?" (ancora Fazio). "Dall'uguaglianza. Dobbiamo capire che le donne sono uguali a gli uomini e che i nuovi cittadini sono uguali agli altri".

E poi il Risorgimento e la constatazione che questo nostro Paese corre quando mette davanti i giovani mentre rallenta quando li chiama bamboccioni non capendo che è la speranza del futuro a fare avanzare.
Mi ritornano in mente le celebrazioni per i 150 anni dell'unità d'Italia a Santarcangelo.
Avevo di fianco a me un partigiano, un reduce decorato dal Presidente Pertini. Abbiamo cominciato a conversare attraversando la piazza a braccetto, emozionati dall'inno cantato da 700 bambine e bambini delle elementari in coro.
Abbiamo cominciato a parlare di quanto l'Italia vera sia distante da quella che ci vogliono propinare.
Mi ha chiesto: "Di che partito sei? PD?". "No, io sono socialista".
Il partigiano, comunista, si è commosso. "Mio nonno era socialista, il mio Presidente era socialista. Questo Paese ha bisogno dei socialisti".

Io la penso come lui. Senza nostalgia, senza fermarsi a ricordare i bei tempi che furono e basta.
Abbiamo molto spesso le idee e le intuizioni ma non se ne parla abbastanza. Restiamo ingabbiati dal nostro stesso silenzio.
Non si possono semplicemente incolpare la stampa e i media che non ci danno spazio. Lo spazio va conquistato. Altrimenti le idee ci rimagono in tasca e i miei figli non meritano un Paese che non dà loro futuro.
"Avanti!"

venerdì 11 marzo 2011

La lezione di Turati

Le libertà di oggi nate dalle lotte del riformismo


Il 21 gennaio 1921 il delirio della “barbarie russa” giunse a produrre i suoi effetti infelici anche in Italia: così venne definito dalla nostra Ernesta Bittanti Battisti quel complesso di azioni che dalla “rivoluzione d’ottobre” portarono alla costituzione del Partito Comunista d’Italia, a seguito di una scissione dal Partito Socialista. Fu la risposta all’ordine di Mosca che nell’agosto 1920 aveva disposto che il Psi doveva mutare nome in “Partito Comunista”, espellendo tutti i riformisti, la componente democratico-legalitaria del partito.
L’ingiunzione fu pubblicata su “L’Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci: al congresso del Psi di Livorno non ottenne la maggioranza, per cui la frazione comunista abbandonò l’assise e si costituì appunto in partito.
Tra i fondatori comunisti si distinse il giovane Umberto Terracini, che ebbe un duro confronto con Filippo Turati, il leader riformista più contestato dai comunisti. Se si leggono le cronache di 90 anni orsono c’è da trasecolare e niente di valido – assolutamente – resta dei pronunciamenti dei comunisti italiani d’allora: tanto che Terracini – che nel secondo dopoguerra fu un autorevole parlamentare del Pci – prima di morire ammise sinceramente che “Turati aveva ragione”. Quali ragioni? A noi oggi paiono scontate, ma vale la pena rammentarle rimeditando gli scritti di Turati (v. “Le vie maestre del socialismo”, Cappelli ed., Bologna 1921) perché insegnano che le libertà di oggi non sono cadute casualmente dal cielo, ma spesso sono il frutto delle battaglie anti-totalitarie e riformiste di ieri, un riformismo che potrebbe avere dunque la paternità morale e d’ispirazione del movimento progressista italiano del XXI secolo.
Una prima ragione riguarda il rifiuto della “coercizione del pensiero”: per Turati va difesa la libertà di parola e d’azione dentro e fuori il partito e non si possono accettare diktat dall’alto, né il partito può trasformarsi in uno strumento “per manovrare le masse”.
Una seconda ragione consiste nell’opposizione alla “dittatura” della burocrazia di partito e di Stato: questa è una dittatura di minoranza, non del proletariato, è quindi dispotismo. “La maggioranza – non ha bisogno di dittature, è la sovranità legittima”.
La terza fondamentale ragione è il rifiuto della violenza. Per Turati “la violenza è propria del capitalismo, non può essere del socialismo. E’ propria delle minoranze che intendono imporsi e schiacciare la maggioranza, non già delle maggioranze che possono, con le armi intellettuali e coi mezzi normali di lotta imporsi per legittimo diritto”. Troveremo poi nella storia una altissima analogia nell’opera somma di Gandhi: per questi “il socialismo è irraggiungibile con la violenza: solo la non-violenza può condurre ad un vero socialismo”.
Organizzazione settaria e centralizzata del partito, predicazione della dittatura e della violenza: su queste basi nasceva anche in Italia il Partito Comunista. Non poteva restare nulla di buono e d’esempio per il futuro. Meritano invece ancora rispetto e sono ancora feconde le parole di Turati per il quale il vero socialismo è quello che tesse la sua tela ogni giorno, che non fa sperare miracoli, che crea coscienze, sindacati, cooperative, conquista leggi sociali utili al proletariato, sviluppa la cultura popolare – senza la quale la demagogia avrà sempre il sopravvento –  conquista i comuni e il Parlamento, e che lentamente ma sicuramente crea la maturità degli animi e delle cose, prepara lo Stato di domani e gli uomini capaci di guidarlo.
Turati venne ingiuriato dai comunisti d’allora come “social-traditore”: la sua vita e le sue parole dimostrano invece che resta per tutti i democratici di ieri e del futuro un padre profetico.
Per ironia della sorte, i comunisti faranno cose buone quando metteranno in un angolo le direttive d’origine e seguiranno le vie proposte dal riformismo di Turati, il social-traditore di una volta. Ma le tare originarie, i retropensieri che continueranno a fluire da tali fonti (Pietro Nenni spiegherà che “il fiume risponde sempre alla sorgente”), impediranno a lungo alla sinistra condizionata da un tale partito di diventare una grande, credibile e coerente forza di governo, come invece è avvenuto negli altri Paesi europei a guida socialdemocratica e laburista.

Nicola Zoller

Scuola, ore di sostegno inadeguate


Il ministero di Mariastella Gelmini condannato per discriminazione nei confronti di studenti con disabilità. Lo stabilisce una sentenza del Tribunale Ordinario di Milano, che accoglie il ricorso presentato dai genitori di 17 studenti e da LEDHA, in collaborazione con LEDHA Milano, contro il ministero dell’Istruzione, l’Ufficio scolastico regionale e quello provinciale. Motivo: la riduzione delle ore di sostegno, ridotte fino al 50% dall’ultima Finanziaria. .
Una vittoria di rilevanza nazionale.
La condanna del tribunale Civile arriva dopo un ricorso presentato il novembre scorso da 17 genitori Il ricorso è stato presentato in giudizio e al  di là del risultato (che già più volte i Tar di tutta Italia avevano garantito) si tratta di un provvedimento storico. Per la prima volta in Italia un Tribunale ha ritenuto che l’inadeguata ed insufficiente assegnazione delle ore di sostegno costituisce una vera e propria discriminazione a danno degli alunni con disabilità e non solo una lesione del diritto allo studio e all’inclusione scolastica. Si tratta di una vittoria totale che rappresenta una svolta nella tutela dei diritti degli alunni con disabilità”.
Il giudice  del Tribunale Civile di Milano, ha accertato la natura discriminatoria della decisione delle amministrazioni scolastiche rispetto ai tagli delle cattedre e delle ore di sostegno previste per 17 alunni.
Per scardinare le inadempienze dell’Ufficio Scolastico Regionale e dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Milano si fa riferimento ad una legge dello Stato, la legge 67 del 2006, che stabilisce che “le persone con disabilità non possono essere discriminate rispetto ai diritti fondamentali”. Tra questi, ovviamente, il diritto all’istruzione.
I genitori hanno fatto “rete” usando gli strumenti legali a disposizione per far fronte alle ore di insegnamento di sostegno quasi dimezzate.
Come si può leggere nel provvedimento il giudice dopo aver accertato “la natura discriminatoria della decisione delle amministrazioni scolastiche di ridurre le ore di sostegno scolastico per l’anno in corso rispetto a quelle fornite nell’anno scolastico precedente (2009/2010)” ordina alle amministrazioni convenute “la cessazione della condotta discriminatoria e condanna i convenuti, ciascuno per le rispettive competenze, a ripristinare, entro trenta giorni dalla comunicazione della presente ordinanza, per i figli dei ricorrenti il medesimo numero di ore di sostegno fornito loro nell’anno scolastico 2009/2010”.
Un ruolo non indifferente nella decisione del Tribunale è stato giocato dal riferimento ai principi e ai valori sanciti dalla Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, ratificata dal Parlamento italiano il 24 febbraio 2009, che comincia perciò ad essere un riferimento normativo imprescindibile.
L’importanza di questo risultato va oltre il contenuto del ricorso ed è un primo segnale forte della ratifica della Convenzione ONU e il riconoscimento del principio di non discriminazione contenuto in essa. Per la prima volta in Italia, in materia di inclusione scolastica, viene utilizzata la legge 67, che sancisce la possibilità per le persone con disabilità e familiari di presentare direttamente ricorso congiunto con le associazioni. Ciò costituisce un fattore di straordinaria importanza senza precedenti.

Daniela Mignogna
 

Tagli per tutti ma non per la Chiesa




Abbiamo un debito pubblico altissimo che continua a crescere, un tasso di sviluppo tra i più bassi d’Europa, tagli a pioggia che colpiscono pesantemente la popolazione meno agiata, i giovani, la scuola, la sanità e le forze dell’ordine, eppure ci consentiamo il lusso, come ci hanno informato i giornali, di continuare a finanziare le attività commerciali, perché altro non sono, della Santa Sede con l’esenzione dall’Ici, e domani dalla nuova Imu, su ospedali, scuole private, alberghi e altre strutture che tutto sono meno luoghi di culto. Un affare che vale un paio di miliardi di euro, e che si cumula al miliardo che già spendiamo per gli insegnanti di religione, all’altro miliardo che arriva dall’8 per mille e ai mille rivoli di denaro pubblico sotto forma di esenzioni e finanziamenti a pioggia, per un totale complessivo stimato in 8 miliardi di euro.
Ma dall’altra parte del Tevere non ritengono sia giunto il momento di fare anche loro qualche risparmio? Forse il governo pensava in questo modo di comprarsi il silenzio del Vaticano così come una volta si compravano le indulgenze. Evidentemente però il caso Ruby questa volta è proprio indigeribile.

Riccardo Nencini

venerdì 4 marzo 2011

Un italiano vero


Marco Travaglio è un diffamatore salvato dalla prescrizione, quella stessa prescrizione contro la quale si è scagliato un sacco di volte: ma alla quale, ora, si guarda bene dal rinunciare nonostante la legge glielo consenta. Ecco, l'abbiamo scritto come avrebbe fatto lui, con la stessa grazia: anzi neanche, lui forse avrebbe aggiunto cose tipo «Travaglio l'ha fatta franca» o «fatti processare» o qualcosa del genere.

Noi ci limitiamo ad aggiungere che a leggere le motivazioni della sentenza d'appello, per quanto giunte fuori tempo massimo, dubbi non ne restano: la condanna è stata confermata a tutti gli effetti e spiega come Travaglio abbia manipolato un fatto e abbia scritto il falso, per giunta con dolo. E un galantuomo - sempre per rifarci al linguaggio travagliesco - non rischierebbe di essere confuso con un Berlusconi o un D'Alema o un Andreotti, se si reputa innocente: rinuncerebbe alla prescrizione. Perché lui non lo fa?

Ma riassumiamo i fatti, perché sono gustosi. La condanna in primo grado è dell'ottobre 2008: il presunto collega beccò otto mesi di prigione (pena sospesa) e 100 euro di multa in quanto diffamò Cesare Previti. Parentesi: la diffamazione è il reato a mezzo stampa per eccellenza, spesso è fisiologico a chi scrive di cose giudiziarie: nel caso di Travaglio, tuttavia, la condanna lo trasformò in un classico bersaglio del suo stesso metodo, e anche per questo, due anni fa, i media diedero un certo spazio alla notizia. L'articolo di Travaglio comunque era del 2002, e su l'Espresso era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». Lo sviluppo, poi, era un classico copia & incolla dove un pentito mafioso spiegava che Forza Italia fu regista di varie stragi. Chi aveva raccolto le confidenze di questo pentito era il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che nel 2001 venne convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell'Utri. In quello studio, secondo Riccio, si predisposero cose losche, tipo salvare Dell'Utri, e Travaglio nel suo articolo citava appunto un verbale reso da Riccio. E lo faceva così: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». E così praticamente finiva l'articolo. L'ombra di Previti si allungava perciò su vari traffici giudiziari ma soprattutto veniva associato a un grave reato: il tentativo di subornare un teste come Riccio. Il dettaglio è che Travaglio aveva completamente omesso il seguito del verbale del colonnello. Eccolo per intero: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell'Utri».

Una diffamazione bella e buona, non si sa quanto intenzionale o quanto legata a certa sciatteria che i giornalisti spesso associano alla necessità di sintesi. Sta di fatto che il giudice Roberta Di Gioia del Tribunale di Roma, il 15 ottobre 2008, condannava Travaglio ai citati otto mesi. E scriveva: «La circostanza relativa alla presenza dell’onorevole Previti in un contesto di affari illeciti è stata inserita nell’articolo mediante un accostamento indubbiamente insinuante... è evidente che l'omissione del contenuto integrale della frase di Riccio, riportata solo parzialmente nell'articolo, ne ha stravolto il significato. Travaglio ha fornito una distorta rappresentazione del fatto... al precipuo scopo di insinuare sospetti sull'effettivo ruolo svolto da Previti». Ma il peggio doveva ancora venire: «Le modalità di confezionamento dell'articolo risultano sintomatiche della sussistenza, in capo all'autore, di una precisa consapevolezza dell'attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione».
In lingua corrente: Travaglio l'aveva fatto apposta, aveva diffamato sapendo di diffamare.
«Ricorrerò in Appello» aveva annunciato il giornalista dopo la condanna: e pazienza se infinite volte si era detto favorevole all'abolizione dell'Appello. «Vedremo le motivazioni della sentenza» aveva poi commentato. Poi, quando furono rese note, non disse una parola.

La sentenza d'Appello è dell'8 gennaio 2010. In quel periodo Travaglio stava litigando furiosamente (via web) con Enrico Tagliaferro, un blogger particolarmente scolarizzato che gli aveva fatto le pulci in più circostanze. La sentenza in sostanza confermava la condanna: semplicemente gli era stata concessa, per attenuanti generiche, una riduzione della pena. Ma Travaglio faceva il furbo e così scriveva a Tagliaferro: «La sentenza di primo grado in cui venivo condannato a otto mesi più un paio di multe e ammende è stata appena devastata dalla Corte d’appello, che elimina la pena detentiva e lascia una multina di 1000 euro». Devastata, aveva scritto. «Ora aspetto la motivazione», aggiungeva, «e mi auguro che venga scritta da un giudice che abbia la più pallida idea di che cos’è un articolo di giornale».

Il problema è che la motivazione, per essere depositata, non ha impiegato i consueti sessanta giorni: ha impiegato un anno, dall'8 gennaio 2010 al 4 gennaio 2011. Così il reato è caduto in prescrizione, orrore. Forse che erano motivazioni particolarmente complesse? Diremmo di no, visto che occupano due sole pagine. Ma che cosa dicono? Non è un dettaglio da poco, visto che lo stesso Travaglio, nella sua disputa telematica con Tagliaferro, era stato tassativo: «Quando parlo di Corti d’appello come “scontifici” mi riferisco a quando mantengono inalterato l’impianto accusatorio e limano qualche giorno sui mesi o qualche mese sugli anni inflitti in primo grado. Quando invece stravolgono le condanne di primo grado, fanno altro: le riformano, le rivedono, le smentiscono. Vedremo se è così anche nel caso mio».

No, ora lo sappiamo: non è il caso suo. La sentenza d'Appello non stravolge, non riforma, non rivede, non smentisce, anzi: «La sentenza impugnata deve essere confermata nel merito», si legge, «in quanto ottimamente motivata, con piena aderenza alle risultanze processuali... con giuste e corrette considerazioni in diritto; il tutto da intendersi qui riportato, senza inutili ripetizioni, come parte integrante della presente motivazione. E' appena il caso di ribadire la portata diffamatoria nei confronti dell’on. Previti... Bastava omettere la frase “in quell’occasione presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole  Previti”  per evitare qualunque diffamazione, senza togliere alcunché alla notizia... Proprio l’averlo inutilmente nominato, e l’aver totalmente omesso la specifica precisazione circa l’assenza fatta dal teste, è prova del dolo da parte del Travaglio».
Tentiamo una sintesi, possibilmente migliore di quelle diffamatorie azzardate da Travaglio. Allora: Travaglio se la prende coi giornalisti diffamatori, ma è un diffamatore anche lui. Travaglio dice che una prescrizione non equivale a un'assoluzione bensì a una condanna: perciò lui è stato condannato. Travaglio dice che un innocente che si reputasse tale dovrebbe rinunciare alla prescrizione: ma lui alla prescrizione non rinuncia. Travaglio è favorevole all'abolizione dell'Appello: ma poi ricorre in Appello. Travaglio ha scritto che le corti d'Appello sono solo degli «scontifici» che mantengono inalterato l'impianto accusatorio e che limano soltanto la pena: è proprio quello che è successo a lui. Un italiano vero.

Filippo Facci