A vent’anni di distanza il
“gesto” di Sergio Moroni va ricordato non per una cerimoniale
commemorazione, ma soprattutto per restituirgli verità e giustizia. Quella
verità e giustizia che in questi venti anni gli sono state negate. Quando lo
compì non fu possibile. Nel “chiasso” di quel settembre 1992 prevalsero
l’intimidazione e la mistificazione. Lo stesso Giorgio Napolitano destinatario
della lettera in cui Moroni motivava il suo “gesto”, ha ammesso – nel 2006 - di
essere stato in quell’occasione reticente, se non pavido: “Avrei forse dovuto,
quel giorno, dire di più”.
Di
fronte alla notizia del suicidio i pm di “Mani Pulite” si riunirono e dopo due
ore i magistrati convocarono i giornalisti dichiarandosi “sereni”. Il futuro
senatore Gerardo D’Ambrosio scandiva: “Si vede che c’è ancora qualcuno che per
vergogna si suicida, per il resto non posso entrare nella mente di un altro”. E
Piercamillo Davigo così commentava il dolore dei compagni socialisti di Moroni:
“Piuttosto dovrebbero interrogare le loro coscienze coloro che con lui hanno
commesso questi reati”. Si era in “fase preliminare”, ma la “presunzione
d’innocenza” non era contemplata. Moroni - senza mai essere stato ancora
sentito dagli inquirenti e senza che ancora fossero iniziate le indagini per cui
era necessaria l’autorizzazione a procedere della Camera dei Deputati - era già
stato pubblicamente condannato con sentenza definitiva. All’epoca quei pubblici
ministeri dai loro giornalisti erano, infatti, chiamati “giudici
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